Il posto di lavoro è uno dei luoghi in cui trascorriamo più tempo nel corso della nostra vita. Di conseguenza, è necessario scegliere un ambiente nel quale le proprie competenze e attitudini vengano valorizzate e nel quale venga riconosciuto il necessario rispetto a livello personale.


Purtroppo, accade fin troppo spesso che il luogo di lavoro diventi invece terreno fertile per discriminazioni di vario tipo, che compromettono il benessere della persona all’interno del posto di lavoro. Queste discriminazioni possono assumere diverse forme, coinvolgendo potenzialmente molteplici aspetti lavorativi e presentandosi in diverse fasi all’interno della relazione tra lavoratore ed impresa.


L’intento di questo articolo è quindi descrivere brevemente cosa si intende per discriminazione sul lavoro, citando le diverse tipologie riscontrabili e fornendo esempi pratici di cos’è (e cosa NON è).


Iniziamo quindi da una definizione del fenomeno, che richiede necessariamente qualche riferimento legislativo.


Cos’è la discriminazione sul lavoro?


L’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità (D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 1989) afferma che:

“E’ vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonche’ la promozione, indipendentemente dalle modalita’ di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attivita’, a tutti i livelli della gerarchia professionale, anche per quanto riguarda la creazione, la fornitura di attrezzature o l’ampliamento di un’impresa o l’avvio o l’ampliamento di ogni altra forma di attivita’ autonoma”.


Rappresenta quindi discriminazione lavorativa qualsiasi atteggiamento che, sulla base di età, sesso, etnia, credo religioso, opinioni politiche, o qualsiasi altra caratteristica personale dell’individuo:

  • impedisce o limita l’ottenimento di un lavoro, attraverso criteri di selezione/o condizioni di assunzione ingiuste;
  • nega la promozione ad ogni livello sulla base di criteri non legati alle performance lavorative;
  • impedisce o limita l’ottenimento di attrezzature;
  • impedisce o limita l’ottenimento di strumenti utili ad avviare o espandere un’impresa o qualsiasi attività autonoma.


Proseguendo il ragionamento, l’articolo successivo del codice vieta inoltre in modo categorico ogni discriminazione dal punto di vista retributivo:

“E’ vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale e’ attribuito un valore uguale”.


Quali sono i tipi di discriminazione sul lavoro?


Per chiarire al meglio tutti i comportamenti punibili, il Codice delle Pari Opportunità (art. 25) distingue tra due casi, definiti come“discriminazione diretta” e “discriminazione indiretta”.


Con “discriminazione diretta” si intende:

“[…] qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.


In parole povere, la discriminazione diretta riguarda provvedimenti che impediscono in modo specifico l’accesso al lavoro o la partecipazione a uno o più gruppi “sfavoriti”. Un esempio tipico riguarda ad esempio gli annunci di lavoro rivolti ad un solo sesso, oppure il trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro nei confronti di donne incinta o con figli.


Parallelamente ai comportamenti di discriminazione diretta (tipicamente più semplici da identificare, anche per chi li subisce) sono però presenti anche atteggiamenti denominati di “discriminazione indiretta”, altrettanto limitanti ma decisamente più difficili da identificare.


Il Codice delle Pari Opportunità parla di discriminazione indiretta in questi termini:

“Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

In breve, i comportamenti di tipo indiretto escludono uno o più gruppi sfavoriti senza però impiegare provvedimenti specifici, in maniera per l’appunto indiretta. Ad un primo esame queste scelte appaiono quindi neutre e senza intenti discriminatori, nonostante gli effetti creati possano essere in tutto e per tutto identici a quelli di discriminazione diretta. 


Per questo motivo, proporre degli esempi validi per ogni occasione diventa più difficile; un’ipotesi potrebbe essere l’inserimento di un’altezza minima per candidarsi ad un lavoro. Anche se il requisito fisico non rappresenta di per sé un elemento discriminatorio, appare chiaro come le donne (mediamente più basse degli uomini) siano di fatto svantaggiate dall’inserimento di una soglia simile.


Ovviamente, non tutte le differenziazioni lavorative possono essere considerate in quest’ottica: un’azione diventa discriminatoria nel momento in cui viene compiuta senza finalità legittime o con strumenti non appropriati


Quali sono le sanzioni previste per chi commette una discriminazione sul lavoro?


L’accertamento del comportamento discriminatorio di un’azienda nei confronti dei lavoratori comporta la revoca di qualsiasi beneficio fiscale o contributivo di cui l’azienda abbia beneficiato. Nelle istanze più gravi o nel caso di recidiva, la Pubblica Amministrazione competente può decidere l’esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da ulteriori agevolazioni finanziarie o creditizie oppure da qualsiasi appalto. L’accertamento di un comportamento discriminatorio è inoltre punito con una multa da 250 euro a 1500 euro.


Nel caso di licenziamento discriminatorio il datore di lavoro può infine essere costretto a reintegrare il dipendente, corrispondendo tutti gli stipendi dal momento del licenziamento a quello della reintegrazione.


Capire cos’è discriminazione e cosa NON lo è: esempi pratici


Come accennato, comprendere l’intento discriminatorio di un datore di lavoro è meno semplice di quanto non possa sembrare, soprattutto se si parla di discriminazione indiretta. Ogni caso va infatti valutato singolarmente, tenendo in considerazione il contesto di riferimento e la possibile presenza di ragioni legittime per la mancata selezione o il licenziamento di un individuo.


Per chiarire un po’ le idee in merito forniamo quindi una breve lista di esempi, utile anche a capire cosa NON rappresenta discriminazione lavorativa.


Rappresenta discriminazione sul lavoro:

  • Il rifiuto di assumere apprendisti o dipendenti di una determinata nazionalità;
  • La scelta deliberata di pagare meno un lavoratore con disabilità fisiche rispetto ai propri colleghi con la stessa posizione per l’impossibilità a compiere determinate attività;
  • La scelta del datore di lavoro di non prevedere un regime di comporto per la malattia adeguato per dipendenti affetti da handicap, nonostante la presenza di misure e sostegni per rispondere adeguatamente a questo bisogno del lavoratore;
  • Promuovere un uomo senza figli rispetto ad una donna con un bambino sulla base del tempo disponibile al di  fuori dell’orario di lavoro;
  • Non rinnovare il contratto determinato di una lavoratrice perché ha usufruito del congedo di maternità;
  • Licenziare un dipendente sulla base del suo orientamento sessuale.


Al contrario, NON rappresenta discriminazione sul lavoro:

  • La scelta della Pubblica Amministrazione di dare importanza alle capacità fisiche dei candidati nella fase di selezione per le Forze Armate, in quanto necessarie a svolgere gli incarichi lavorativi;
  • Licenziare un dipendente della Pubblica Amministrazione per l’offerta di prestazioni sessuali a pagamento fuori dall’orario di lavoro. In questo caso la legittimità del provvedimento deriva dal danno reputazionale arrecato alla PA, non da scelte basate sull’orientamento o il comportamento sessuale di un individuo;
  • La scelta di un datore di lavoro di licenziare un dipendente appartenente a una minoranza per le sue assenze prolungate non rappresenta un comportamento discriminatorio, in quanto non è presente alcun motivo odioso nei confronti del lavoratore. Ovviamente sarà necessario provare che la reale ragione del licenziamento sia stata l’assenza e non un atteggiamento pregiudiziale;
  • Non rappresenta discriminazione la scelta del datore di lavoro di licenziare un dirigente che senza alcun permesso ha consentito all’organizzazione religiosa di cui faceva parte di somministrare dei questionari invasivi ai dipendenti dell’impresa. In questo caso il licenziamento non deriva da un odio ingiustificato verso l’organizzazione religiosa, ma dall’evidente effetto negativo sull’ambiente aziendale causato dalla somministrazione delle domande.


Come accennato in precedenza, capire dove finisca la finalità legittima e dove inizi la discriminazione può essere molto complicato e richiede una valutazione completa dello scenario di riferimento. Proprio per questo motivo, in questi casi è necessario rivolgersi a professionisti imparziali e professionali, in grado di valutare in modo competente i motivi legati alle scelte lavorative compiute dall’azienda.


Consulenze in diritto del lavoro


Forniamo consulenza per aiutare lavoratori discriminati e ingiustamente penalizzati a far valere i loro diritti. Nello specifico, ci occupiamo di:

  • verificare l’effettivo carattere discriminatorio dei comportamenti aziendali;
  • supportare il cliente in ogni fase processuale;
  • richiedere un risarcimento appropriato in caso di effettiva discriminazione;
  • provvedere al reinserimento lavorativo del cliente nel caso sia previsto dalla Legge.

Nel caso fossi interessato a una consulenza, non esitare a contattarci.

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